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Immagine del redattoreCarlo Trionfi

La valutazione delle competenze genitoriali




Mercoledì 8 maggio ho avuto l’opportunità di trattare nell’ambito del Webinar organizzato dall’OPV - Ordine degli Psicologi Veneto - “Protezione e tutela dei minori: la presa in carico, il ruolo dello psicologo”, il tema della valutazione delle competenze genitoriali.

La mia riflessione è iniziata da una duplice visione del concetto di Trauma. Da un lato il trauma inteso come “improvviso, incontrollabile sconvolgimento dei legami di affiliazione” (Lindemann, 1944); dall’altro come “stress di gravità estrema, che minaccia l'integrità stessa della coscienza, e che si presenta come conseguenza di un evento o di una sequenza di eventi con caratteristiche tali da interrompere la continuità normalmente avvertita da un soggetto tra esperienza passata ed intenzionalità” (DSM V).  

Queste due definizioni evidenziano dei concetti che diventano molto importanti nell’ambito della competenza genitoriale: il legame di affiliazione, di attaccamento e l’integrità della coscienza, ovvero il percepirsi come esseri integri e come soggetti, attori e protagonisti della propria storia, in grado cogliere la normale continuità tra esperienza passata e intenzionalità. Entrambi questi aspetti possono essere ritrovati infatti in quello che considero essere il compito principale del genitore e che gli consente di esserlo in modo “sufficientemente buono”: permettere l’integrità della coscienza e la soggettività storica del figlio.

Concretamente, nell’ambito della valutazione delle capacità genitoriali, come psicologi siamo, cioè, chiamati a comprendere se e in che modo il genitore sta cercando di aiutare il figlio a pensare a sé stesso come ad un essere integro e coerente e in un rapporto coerente con la realtà. Inoltre, è importante considerare in che modo gli sta fornendo la maniera di percepire la continuità tra esperienza passata ed intenzionalità, ovvero la possibilità di percepirsi come soggetto che impara dalla propria esperienza e orienta il proprio comportamento, le proprie intenzioni sulla base della propria esperienza.

Quando pensiamo alla funzione genitoriale, possiamo definirla in modi differenti. Alcuni autori sottolineano la natura del legame legata all’accudimento materiale, nutritivo, di insegnamento (Bornstein.1991), altri si concentrano di più sul compito protettivo, affettivo, regolatorio e normativo dei genitori sui figli. (Vicentini, 2003).

Molto interessante a mio avviso risulta essere la visione di Winnicott (1971), che focalizza la sua riflessione sulla la dimensione di cura del genitore come organizzatore della vita psichica del bambino, attraverso azioni continue di rispecchiamento. Come lo stesso Winnicott afferma infatti, “Il genitore riconosce nel bambino gli stati emotivi che già appartengono all’esperienza del genitore e se ne cura. […..] Secondo me, di solito ciò che il lattante vede è sé stesso. In altre parole, la madre guarda il bambino e ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scorge” (Winnicott, 1971).

Quindi per valutare interamente le competenze genitoriali è importante focalizzarsi anche sul modo in cui viene svolta l’attività di rispecchiamento da parte del caregiver.

Questi aspetti sono meglio comprensibili nell’ambito del famoso paradigma dello Still-face, messo a punto dallo psicologo dello sviluppo Edward Tronick per studiare l’effetto della relazione madre - bambino sull’organizzazione psicoaffettiva di quest’ultimo. Nell’esperimento che ha consentito lo sviluppo del paradigma, viene chiesto ad una madre di interagire con il suo bambino di circa 1 anno e poi le viene chiesto di immobilizzarsi smettendo di rispondere alle richieste del bambino e rimanendo neutrale per vedere come il bambino reagisce: nel giro di pochissimo tempo la mancanza di sintonizzazione e  di rispecchiamento da parte della madre genera nel bambino un angoscia tale da farlo sentire frammentato nella sua identità e impotente nel governo della realtà. È interessante notare come sia possibile una riparazione di questa frammentazione, proprio ad opera della madre, che recupera l’azione di rispecchiamento necessario al bambino per sentirsi nuovamente integro.  

Sintonizzazioni, rotture e riparazioni sono osservabili nella comune dinamica genitore-bambino. Esistono tuttavia delle condizioni in cui i caregiver faticano a fornire un rispecchiamento sano al figlio, con effetti profondi sul legame di attaccamento: pensiamo ad esempio a situazioni di depressione nei caregiver, o a contesti famigliari in cui la presenza di violenza danneggia profondamente il senso di integrità del sé e genera impotenza nel bambino che fatica così a sentirsi adeguatamente riconosciuto in una dinamica di rispecchiamento.

Vi riporto di seguito il caso di Fabio che ci permette di comprendere nel concreto quanto ho appena affermato: 


“Fabio ha 12 anni. Lo incontro nel mio studio per un sostegno psicologico relativamente a problemi scolastici e di ritiro sociale. Vive in una famiglia in cui genitori litigano dalla sua nascita e si sono separati quando lui aveva cinque anni.

Durante il nostro primo incontro sembra molto determinato e mi comunica subito che i suoi genitori lo mandano dallo psicologo perché possa andare meglio a scuola, ma lui mi confida di venire per un problema più importante: c’è un ricordo che non riesce a cacciare dalla mente e che spesso gli impedisce di concentrarsi e studiare.

Dal momento che questo ricordo risale a quando era molto piccolo, non riesce a comprendere se sia accaduto realmente o se sia frutto della sua fantasia e vorrebbe che lo aiutassi a fare chiarezza. Suo padre aveva trovato sua madre a letto con un altro uomo, avevano iniziato a litigare e poi ad alzare le mani. L’amante era scappato mentre il padre si era lanciato sul letto e aveva preso la madre per il collo, insultandola e facendola gridare molto forte.

 Ad un certo punto quest’ultima era riuscita a divincolarsi ed era andata in cucina, aveva preso un coltello, era tornata in camera da letto e lo aveva alzato contro il padre gridandogli di andarsene. “Mio padre se ne andò e non tornò più. Questo è quanto mi ricordo di quando i miei genitori si sono separati.”

Chiedo a Fabio dove si trovasse lui in quel momento: “Io ero nascosto sotto al letto, sentivo tutto, il letto si muoveva e avevo paura che mi crollasse tutto addosso.” Fabio si ferma, sembra assorto e poi aggiunge: “Questo senso di angoscia e paura mi tormenta, per questo non riesco a cacciare dalla mente questo pensiero”.  Quando temo che tutto mi possa crollare addosso, questo ricordo si fa di nuovo strada nella mia mente e, per quanto angosciante sia, mi tiene molta compagnia.”


Dai miei colloqui con Fabio, concordammo che al di là che si trattasse di un ricordo, di una fantasia, di un insieme di ricordo e fantasia o una sua rielaborazione circa un ricordo sbiadito, le immagini che mi aveva portato erano fondamentali per tenere a bada la sua paura, la paura che tutto potesse crollargli addosso, la paura di perdere improvvisamente ogni sicurezza. Mi sembra chiaro come in questa situazione non ci sia stata la possibilità per questi genitori di garantire al figlio l’integrità e neppure di fornirgli un senso di sé come essere in grado di governare gli accadimenti della propria storia. Il senso di impotenza diventa così immenso.

Proseguendo la mia riflessione, noto come sia importante fare il punto su un altro aspetto. La buona capacità genitoriale viene solitamente identificata con la capacità di proteggere il figlio da eventi e situazioni stressanti?  Ma è sempre così?

Le evidenze raggiunte negli ultimi 50 anni di lavoro sulla cultura dei minori hanno permesso di arrivare a definire il cosiddetto principio del Superiore interesse del minore: ci si è cioè, concentrati sul rendere i genitori più consapevoli del loro compito di protezione del figlio, di ascolto dei suoi bisogni, arrivandolo a considerare come soggetto fragile all’interno della famiglia, che necessita di protezione e di un ascolto particolare, un soggetto i cui interessi sono, per legge, superiori rispetto a quelli degli altri familiari e che devono quindi primariamente essere difesi.

L’accento sulla necessità di protezione primaria dell’interesse del minore ha così concretamente consentito alla giustizia di intervenire e combattere fenomeni come quello dell’abuso e del maltrattamento, e di tutti quegli eventi traumatizzanti che impedivano al minore, come abbiamo detto di viversi come soggetto integro e intenzionale. Il concetto di potestà genitoriale viene quindi sostituito da quello di responsabilità genitoriale: il genitore è chiamato alla responsabilità verso l’educazione del figlio, e non all’esercizio di un potere, come sottolineato anche da Vercellone, ex presidente del Tribunale per i minorenni di Torino, nel suo articolo intitolato “centocinquant’anni di ingerenza del giudice minorile nelle famiglie”.

Tale visione ha tuttavia esasperato anche la percezione del minore come soggetto fragile, che va tutelato da qualsiasi tipo di esperienza.  Come possiamo osservare negli ultimi anni infatti,  al di fuori delle situazioni familiari patologiche in cui i genitori fanno ancora molta fatica a prendersi cura dei figli e a proteggerli, ad oggi il rischio maggiore che sembra esserci per i genitori è che, proprio per la necessità di dover proteggere i loro figli, non siano al contempo  in grado di fornire loro un senso di competenza, ovvero un senso identitario come soggetti potenti nel mondo capaci e responsabili nel governare la loro realtà sociale e la loro affermazione nel mondo.

Al genitore, infatti, viene richiesta una funzione non solo di protezione dell’attaccamento sicuro, ma anche di sostegno nell’organizzazione di quella che sarà la sua identità sociale adulta.  Un genitore non in grado di svolgere questo compito, non riesce ad infondere coraggio nel figlio.  Ed è possibile che proprio questa mancanza di coraggio possa contribuire significativamente a generare i problemi di ansia e di depressione così diffusi oggi tra i nostri figli adolescenti.

Eppure, per i genitori è di primaria importanza infondere sicurezza e protezione ai figli, e anche noi psicologi spesso dimentichiamo l’importanza del costrutto del coraggio.  È necessario, tuttavia, tornare a dare dignità a questo termine e valutare, tra le competenze genitoriali, la capacità del genitore di creare coraggio nel figlio, di farlo sentire forte, potente e responsabile

Come si evince dal mito di Narciso, la madre Liriope non ha fatto altro che proteggerlo, invano, sia dal rischio di conoscere veramente sé stesso, sia dal contatto con persone esterne, per proteggerlo.  Così il rischio per i genitori di oggi è che, spaventati da profezie catastrofiche e troppo coinvolti dalla retorica della protezione del figlio, intendano il loro ruolo solo come di protezione e gli impediscano di comprendere ed esercitare sulla realtà il suo valore e di ricevere direttamente dalla realtà il suo rispecchiamento: in questo modo genitori eccessivamente preoccupati non preparano i loro figli ad affrontare sé stessi nella realtà, tenendoli imprigionati nelle loro aspettative.

Esplicativo anche stavolta è il caso di una coppia che tempo fa mi chiese di aiutarli a cambiare scuola al figlio, che dopo il primo anno di liceo, aveva delle difficoltà.


“E’ la prima volta che lo vediamo in difficoltà e ci sembra che stia così male non sappiamo se ce la potrà fare ad andare avanti. Lui è abituato ad andare molto bene a scuola mentre qui ha quasi tutti 6, l’anno scorso erano 8 e 9. A noi non interessano i voti ma lo vediamo soffrire, si sta chiudendo in sé stesso. Forse se facesse una scuola più facile.”   Vista la situazione alla fine ho detto che loro figlio avrebbe considerato molto seriamente il loro parere sulla scuola.  Se loro lo avessero lasciato in quella scuola, invitandolo ad andare avanti, lui avrebbe avuto la sensazione che i suoi genitori pensavano che lui ce la poteva fare, che era forte abbastanza, se invece avessero fatto un’iscrizione ad una scuola più facile gli avrebbero dato la sensazione di non essere abbastanza forte per quella scuola. Per proteggerlo, lo avrebbero indebolito.


Quindi, nella valutazione e nel lavoro di sostegno della genitorialità, oggi più che mai è fondamentale  tenere in considerazione non soltanto la capacità del genitore di tutelare il figlio, di creare un rapporto positivo con lui, ma, specialmente in adolescenza,  la competenza del genitore nel lasciare che il figlio si confronti con la sua realtà sociale, che sbagli, che rischi, che cada, che si rialzi ma che vada avanti, anche talvolta sacrificando l’armonia della relazione positiva con il genitore.

Ricordiamoci che Il genitore non deve prioritariamente salvare l’armonia della relazione con il figlio, ma deve salvarlo sostenendolo come soggetto indipendente o che presto sarà indipendente.

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